Maurizio Sannibale
Leggi i suoi articoliProsegue l'iniziativa che i Musei Vaticani e Il Giornale dell’Arte dedicano a un visitatore ideale: un viaggio dentro il «Museo infinito» accompagnati da guide d’eccezione: i curatori responsabili delle sue collezioni. Il Giornale dell’Arte ospiterà ogni settimana un testo originale elaborato dai curatori dei Musei Vaticani. Maurizio Sannibale, direttore del Museo Gregoriano Etrusco, illustra la nascita della raccolta museale vaticana dedicata al mondo etrusco
Il Museo Gregoriano Etrusco è un museo che occupa una pagina fondamentale nella storia dell’etruscologia. Del Museo, voluto da Gregorio XVI, pontefice cui dobbiamo anche la fondazione del Gregoriano Egizio e del Gregoriano Profano, quest’ultimo nel palazzo Lateranense e oggi qui nei Musei Vaticani, conosciamo addirittura la precisa data di fondazione: 2 febbraio 1837. Varcando la sua soglia, leggiamo ancora in epigrafe l’iscrizione originaria: «MVSEUM GREGORIANUM EX MONVMENTIS HETRVSCIS».
L’iscrizione non identifica dunque semplicemente il museum come «casa delle Muse», ma ne specifica e sottolinea volutamente la natura di museo tematico, quindi legato a una terra e a una civiltà, e lo fa a ragione. Si tratta difatti di uno dei primi musei esplicitamente consacrati al popolo degli etruschi. La sua fondazione avviene a ridosso di fondamentali scoperte compiute in quella che era allora l’Etruria pontificia. Il territorio dello Stato pontificio comprendeva infatti alcune delle più importanti città degli Etruschi, di cui la terra celava ancora ignote quanto straordinarie testimonianze, come Veio, Cerveteri, Vulci e Tarquinia, che di lì a poco sarebbero entrate a far parte del nostro museo e del patrimonio della cultura europea.
Sono anni di scoperte straordinarie, come la tomba Regolini-Galassi a Cerveteri, una delle testimonianze più rilevanti per l’epoca orientalizzante, e di altrettanto straordinarie imprese archeologiche come quelle compiute a Vulci dalla famiglia Campanari. I Campanari iniziano a scavare a Vulci dopo la metà degli anni Venti dell’Ottocento, sotto il segno, potremmo dire, dell’imprenditoria privata, pur regolata da una legge specifica dello Stato Pontificio, ossia dall’editto Pacca del 1820, che regolamentava gli scavi archeologici, nonché la vendita e l’esportazione di quanto rinvenuto.
Essendo ancora vivo il ricordo del depauperamento subito nella fase napoleonica, lo Stato Pontificio, con una legislazione certamente più avanzata rispetto ad altri Stati territoriali dell’Italia del tempo, stabilendo anche un diritto di prelazione, cercò di arginare l’emorragia verso l’estero delle proprie antichità, fatto che comunque avvenne allora e in seguito. Sarà proprio lo Stato Pontificio, negli anni Trenta dell’Ottocento, a costituire una società con la famiglia Campanari, assicurando così una parte cospicua di quelle straordinarie scoperte a quello che sarebbe diventato presto il museo che ancora oggi vediamo.
Come si è visto nei precedenti appuntamenti del «Museo Infinito», i Musei Vaticani si vanno a connotare come tali nel corso del Settecento. Il Museo di Gregorio XVI ‒ fisicamente inglobato in queste nuove architetture museali e guardando all’esperienza del collezionismo antiquario e della museografia settecentesca, come nel caso della stessa Galleria Clementina qui in Vaticano ‒ raccoglie l’eredità del passato ma con elementi di novità nella sua natura tematica e documentaria, anche sul piano museografico.
Il Museo sarà ospitato in quello che era l’Appartamento di Tor dei Venti di Pio IV Medici, luogo di ritiro dei papi soprattutto tra la seconda metà del Cinquecento e il secolo successivo, iniziato da Michelangelo e poi completato da Pirro Ligorio, a cui si deve il monumentale Nicchione che affaccia sul cortile della Pigna. A questo imponente edificio, si addossa il quattrocentesco Palazzetto del Belvedere di Innocenzo VIII Cibo progettato dal Pollaiolo, al quale conduce la chiocciola del Bramante. Questo è dunque il contesto architettonico in cui si sviluppa il Gregoriano Etrusco: un vero e proprio museo nel museo.
Nel 1836, per volontà di Gregorio XVI si decide di inaugurare in pochi mesi la raccolta etrusca. Viene convocata una commissione di dotti e di artisti, fra i quali Camuccini, Thorvaldsen, Valadier. Quasi contemporaneo è un evento che si tenne a Londra ed ebbe una certa risonanza, ossia la mostra delle «Tombe etrusche» che i Campanari inaugurarono a Pall Mall nel gennaio del 1837. L’esposizione, che resterà aperta per circa 18 mesi, presentava i reperti con un’intuizione che noi potremmo ora definire «multimediale»: un’ambientazione emotiva e suggestiva in cui i visitatori, in alcuni ambienti, avevano l’impressione di scendere in una tomba. Le impressionanti ricostruzioni di sepolture e di corredi funebri erano ambientate in alcune tombe dipinte di Tarquinia riprodotte al vero, tra cui quella delle Bighe.
Il sito di Tarquinia, poco rappresentato nelle nostre raccolte, è legato alla scoperta di diverse tombe dipinte che si andavano a disvelare tra gli anni Venti e gli anni Trenta dell’Ottocento. Tali scoperte comportarono non solo difficoltà conservative, ma anche problemi di documentazione e di studio. Dapprima si cominciò a disegnare le tombe, e in questo modo furono in effetti pubblicate, dopodiché si tentò con successo, e per la prima volta, di realizzarne copie al vero.
Questo fu reso possibile dalla straordinaria figura di artista archeologo, come egli stesso si definiva, di Carlo Ruspi, pittore romano che mise a punto una tecnica di rilevazione, attraverso carta lucida, delle pitture murali. In un periodo in cui non esisteva altro modo di riprodurre fedelmente queste pitture, peraltro fortemente deperibili all’aria, le copie Ruspi costituiscono non solo una notevole opera d’ingegno dal valore artistico ma anche una preziosa documentazione per quanto in parte o totalmente scomparso.
Ricordiamo poi che le leggi di tutela impedivano, fortunatamente, che si procedesse al distacco delle pitture. All’epoca tale tecnica era già stata messa in qualche modo in atto, pur essendo allo stato embrionale, ma le pitture delle tombe etrusche non erano propriamente degli affreschi, e il loro distacco poteva danneggiarle irreversibilmente o causarne la perdita, come avvenne nel caso della perduta tomba Campanari di Vulci. Questo clamoroso incidente scoraggiò nuovi tentativi, ma grazie alla copie Ruspi, le pitture etrusche uscirono, per così dire, dalle tombe e furono visibili in Italia e in Europa.
Le riproduzioni al vero furono commissionate a Ruspi proprio dall’amministrazione pontificia e avrebbero costituito in seguito una peculiarità del Museo Gregoriano Etrusco, che tutt’oggi le conserva, per ora in deposito. Alcune di queste sono uscite solo in occasione di mostre, ma auspico che presto possano tornare a essere visibili nel Museo, unico luogo al mondo che le conserva integralmente, perché le copie realizzate per la mostra dei Campanari a Londra sono andate perse, eccetto alcuni lacerti nei depositi del British Museum, mentre la serie voluta da Ludwig I per il museo di Monaco andò distrutta sotto le bombe nel 1943.
Tornando alla mostra londinese, con la sua suggestiva ambientazione emozionale, essa ebbe un forte impatto nell’immaginario culturale dell’epoca. Tanto che il Museo Gregoriano Etrusco, che inaugurò pressoché in concorrenza e in concomitanza con essa, non mancò di inserirne una citazione nel proprio allestimento su suggerimento di Secondiano Campanari. Fu così che il museo finì per ospitare anche una finta tomba etrusca, con una coppia di leoni a guardia all’ingresso, mentre volti etruschi ‒ terrecotte votive di uomini, donne, bambini ‒ nel loro realismo di impressionante modernità accoglievano il visitatore.
Il nascente Museo Gregoriano Etrusco, fra tradizione e innovazione, ripercorreva in qualche modo i precedenti museografici già presenti nel Settecento: un certo gusto decorativo ancora era dominante nella presentazione delle opere, allestite, per la maggior parte al di fuori delle teche. Persino i vasi dipinti erano esposti su mensole, a portata di occhio e di mano del visitatore, come quadri in una pinacoteca.
Il museo che oggi vediamo è soprattutto una costruzione del Novecento, il secolo che ha visto avvicendarsi quattro grandi ristrutturazioni, sebbene conservi senz’altro l’anima originaria, di cui sussiste una tendenziale aggregazione per materiale costitutivo e soprattutto la sezione separata della collezione dei vasi, perlopiù greci di nascita ma etruschi per adozione data la loro provenienza da tombe etrusche.
Il primitivo museo, sebbene occupasse già i due saloni monumentali decorati da cicli pittorici cinquecenteschi, l’emiciclo e le sale che danno sul cortile della Pigna, appare ben più contenuto rispetto alle attuali ventidue sale. La sua espansione inizia all’alba del Novecento con l’attività di Bartolomeo Nogara, pioniere dell’etruscologia e futuro direttore generale, dal 1920 al 1954, dei Musei Vaticani.
Egli iniziò a riallestire il Museo Etrusco e lo fece seguendo i criteri museografici allora più attuali, affrontando, necessariamente, i problemi legati alla provenienza e alla ricostruzione dei contesti. Così Nogara, ad esempio, operò sulla tomba Regolini-Galassi che, entrata come contesto unitario, aveva subito lo stesso destino di tutti gli altri oggetti del museo ed era stata dispersa nelle sale tematiche.
È in quell’epoca che ha inizio una politica di importanti acquisizioni, come quella, avvenuta nel 1898, della collezione Falcioni di Viterbo, con un nucleo consistente di oreficerie. Ben presto, nel 1901, confluiranno nel museo anche oggetti già presenti nelle raccolte vaticane, come i vasi della Biblioteca, a loro volta retaggio di un più antico collezionismo risalente in alcuni casi al Seicento.
Il Museo Etrusco di Nogara, che comprendeva anche la nuova sala delle Terrecotte, fu inaugurato dal pontefice in persona, Pio XI, nel 1925. Un decennio più tardi, nel 1934, il Museo si espanderà ulteriormente, con la donazione della collezione Benedetto Guglielmi. È in tale occasione che il museo inizia ad occupare il Palazzetto di Innocenzo VIII, sul quale si estenderà con nuove sale tra gli anni Cinquanta e Sessanta nell’allestimento curato da Filippo Magi.
Un’altra tappa è rappresentata dalla donazione della prestigiosa collezione Astarita (1967), seguita dall’inaugurazione della sala ad essa dedicata e dalla ristrutturazione delle prime sale del museo, tra cui quelle della Regolini-Galassi e dei Bronzi, sotto la guida di Francesco Roncalli negli anni Settanta.
L’acquisto della collezione Giacinto Guglielmi (1987), riunificata così con quella di Benedetto donata nel 1934, ha costituito anche l’elemento scatenante per l’ulteriore ampliamento e ristrutturazione del Museo (1992-1996) che corrisponde all’incirca alla disposizione attuale, che reca il sigillo del suo direttore di allora Francesco Buranelli.
Infine, alla mia direzione, oltre a una integrale riproposizione della tomba Regolini-Galassi dopo i recenti studi e restauri, si datano gli interventi sulla collezione dei vasi. Alla sistemazione dei vasi italioti nella suggestiva cornice dell’Emiciclo superiore (1998), è seguita nel 2010 l’inaugurazione di tre sale (Emiciclo inferiore, Astarita e della Meridiana) con un riesame dell’architettura interna delle vetrine per animarne l’esposizione. Si è voluto però mantenere un ordinamento in qualche modo tradizionale, per produzioni, artisti, gruppi che, oltre alla caratteristica didattica, ha il pregio di fornire un campionario rappresentativo della ceramografia antica, una sorta di pinacoteca del mondo classico, che qui annovera autentici capolavori.
Il Museo Gregoriano Etrusco è al tempo stesso facile e complesso da consultare, nella sua specificità e ricchezza. I temi sono molteplici e non si limitano all’archeologia, alla storia dell’arte, alla cultura e identità italiana e più in generale europea. Per la sua peculiare collocazione esso si apre alle culture del mondo rivolgendosi a un pubblico vasto e internazionale, al quale cerca di presentarsi.
Al netto degli apparati didattici, contenuti per scelta e necessità, resta la comunicazione diretta e non verbale delle immagini, della forma artistica, del mito come della vita quotidiana, che chiunque può osservare attraverso le opere esposte. È un dialogo tra individui e culture e un viaggio nel tempo che ognuno, a seconda della propria sensibilità e istruzione può intraprendere, non solo coloro che oggi vivono nei luoghi che furono etruschi. Infiniti sono i vari livelli di approccio e, come non mi stanco mai di dire, un museo contiene più di quello che raccoglie.
IL MUSEO INFINITO
Un viaggio dentro i Musei Vaticani accompagnati da guide d’eccezione: i curatori responsabili delle sue collezioni
A cura di Arianna Antoniutti
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